Sulle creste innevate del monte Terminillo

Un'alba siderale, creste affilate e innevate, vento tagliente e orizzonti cristallini. Una giornata al top!

Lontani dalle fatiche e dai profumi della montagna per troppo tempo. Le settimane che passavano inesorabili piene di pioggia e di condizioni mutevoli. Lo sguardo rivolto ai week end successivi si infrangeva nelle ondate estenuanti di maltempo e le occasioni per le nostre fughe verso le terre alte ci sfuggivano inesorabili. Una finestra di tempo stabile, anche se condizionato da venti forti e temperature fredde, veniva segnalata per Sabato 21 Febbraio. Il tempo esiguo delle convocazioni , a cui per vari motivi rispondeva solo Diego, e la fuga verso i territori di serenità si faceva realtà. Diego accettava di buon grado la mia antica proposta del Genzana e del Rognone nonostante il suo desiderio di Terminillo. D’altra parte era l’occasione di chiudere proprio con Diego la conoscenza dei monti intorno al lago di Scanno cominciata insieme la primavera dello scorso anno. Appuntamento al casello di Tivoli alle 5,30; autostrada per Pescara deserta e uscita tra i pilastri immobili delle pale eoliche di Cocullo. Attraversiamo già con i primi bagliori di una giornata promettente le gole del Sagittario e al cospetto delle acque blu del laghetto omonimo e delle verticali pareti della gola il sacrificio dell’alzataccia è già ripagato. Costeggiamo il placido lago di Scanno, scuro occhio incastonato in un paesaggio innevato fino a quote basse e prendiamo a salire verso Frattura Nuova; un paese addormentato, deserto dove siamo gli unici esseri viventi che abbiano un progetto da portare a termine. Dopo le ultime case del paese la strada è sbarrata da cumuli di neve; è il momento di fermarsi e dare luogo al rituale del vestiario. Pronti alle 7,15 ci guardiamo intorno. Ripercorriamo con lo sguardo lo stretto vallone del Terratta salito lo scorso anno, riviviamo l’avventura già vissuta insieme su quei territori. Siamo felici di essere ancora lì. Prendiamo a salire, la neve è molle e i passi si fanno subito pesanti e lenti . Studiamo il percorso tracciato sulle carte e decidiamo di tagliare corto. Con quella neve il percorso classico sarebbe troppo lungo ed estenuante. Pensiamo che salendo di quota troveremmo presto condizioni migliori di manto nevoso; il primo vallone che si inerpica sul fianco del monte, che si perde all’interno di un bosco di abeti ci sembra percorribile; ripido ma fattibile. Lo prendiamo senza indugi. La quota sale rapidamente, la temperatura con l’andatura affannosa sale, ci spogliamo delle giacche pesanti. Il vento non c’è e la giornata sembra ideale per affrontare quella che sembra una fatica preannunciata massacrante. La neve non cambia stato; non ha minimamente metamorfizzato e i passi sono sempre profondi. Ogni passo una conquista. Ci inoltriamo all’interno del bosco dove la luce radente del sole che sbuca dalle creste ad est trasforma la quiete in una pace surreale di toni caldi e colori contrastanti. Continuiamo a salire senza indugi, ansimando e delusi che lo stato della neve non cambi. Con l’altezza la vista della valle del lago di Scanno si fa imperiosa. La montagna Grande col Terratta e l’Argatone sono li davanti; verso sud tutte le cime oggetto di progetti futuri: le Serre di Carapale, il Godi, il Greco e lontano il Ruvido e lucido Petroso. E’ un bel vedere. La stanchezza diventa optional di quello stato di benessere. Usciamo dal bosco mentre la pendenza si fa leggermente meno ripida. Una infinita mammella bianca si para davanti a noi. Ogni passo sembra il precedente e l’orizzonte è sempre immutabile. Passi tanti passi e nulla muta. Solo il lago sparisce dalla vista a causa della rotondità della montagna. Poi all’orizzonte si paventa una sorta di palo coperto da neve; ognuno pensa alla croce del traguardo ma passo dopo passo ci accorgiamo che è solo un’antenna. La poesia sparisce ma rimane la speranza che comunque rappresenti la cima. Ormai camminiamo da 3 ore e avvicinandoci all’antenna scopriamo solamente che davanti si snoda monotona la stessa mammella di prima, solo meno ripida. L’altimetro segna quota 1900, la neve non cambia stato i passi sono monotoni e profondi; l’escursione sta prendendo i connotati di un massacro. Ciò che all’orizzonte sembra la cresta è solo una linea di confine che si sposta con la rotondità della montagna. Ognuno di noi due in preda ormai ad una stanchezza profonda fa appello alle energie rimaste. Diego è un autentico uomo da fatica, letteralmente apre la strada e mi tira verso l’alto. Dentro di me gli sono grato di tanta silenziosa forza e attitudine alla fatica. Continuiamo a bere e a camminare. Poi lassù in cima, ci accorgiamo che la cresta spolvera, segno che il vento sta alzando neve, segno che lì è il limite che rappresenta la fine delle nostre fatiche. E’ ancora lontano quel punto ma almeno sappiamo dare un confine geografico alla fine del massacro. Solo alle 12,15, raggiungiamo la croce di vetta che domina insieme ad un’altra ancora più svettante antenna. Anche a quota 2170 lo stato del manto nevoso non tiene i nostri pesi. Solo dove il vento ha agito con la sua forza abrasiva si riesce a camminare decentemente. Siamo soprafatti dalla fatica; non è la solita felicità di quando si è su. Davanti a noi si allunga il muro scavato dalle rave della Majella, è una montagna spettacolare, imponente, spaventosa da inserire nei nostri progetti, almeno nelle condizioni che stavamo vivendo in quel momento. Il cielo era sereno e il sole caldo, ma il vento che spirava teso da est era di un freddo mai provato. In breve tempo ci siamo congelati, le dita non rispondevano ed erano impacciate nel manipolare le macchine fotografiche; anche le mascelle non erano libere di articolare movimenti e le parole uscivano storpie di sillabe mai pronunciate. Rimanere sulla cresta di vetta era un massacro pari alla salita, anzi anche più faticoso a causa dei conflitti dolorosi che il freddo stava scavando all’interno della nostra sopportazione. E alla fine dopo poche foto e un ingordo scrutare le montagne circostanti, sapendo che avremmo da lì a poco rimpianto il momento, ci siamo rimessi in moto. Ci serviva riacquistare calore. Solo la marcia in quel momento poteva sollevarci dall’intorpidimento. In leggera pendenza sulla cresta arrotondata raggiungiamo in una mezz’oretta il vico Monte Rognone. Altra cima arrotondata, apparentemente scoperta come il Genzana ma stranamente meno esposto ai venti. Una balcone incredibile da Sud verso il Sirente e il gruppo del Velino. Insolita visuale. Lontano ma imponente a Nord, il Gran Sasso si stava coprendo delle prime nuvole di copertura previste per il pomeriggio. Erano le 13,15. Ad Ovest la sagoma del Viglio svetta, accanto la piccola piramide del Cotento e continuando verso nord il Tarino. L’emozione di conoscere il territorio, i profili di tante montagne amiche, facevano dimenticare la stanchezza e il freddo. Sostiamo un po’ in vetta per riprenderci ciò che la precedente ci aveva negato. Sorridiamo e ci rilassiamo anche pensando che davanti a noi , ormai c’è solo una lunga discesa. La prendiamo dopo una ventina di minuti. Decidiamo ancora di non seguire il sentiero dettato dalle carte ma di avventurarci su un traverso sicuramente più breve che punta direttamente verso il lontano lago ormai di nuovo faro per il nostro cammino. Il pensiero di doverci trovare di fronte a paresti scoscese o a passaggi impervi dovuti ai canaloni presenti lungo i fianchi della montagna ci accompagna, ma evidentemente la speranza di accorciare il percorso è più forte della sicurezza di dover annaspare ancora più a lungo tra la neve inconsistente. Qualche difficoltà la incontriamo. Rendo a Diego le fatiche della salita ed apro il sentiero appropriandomi delle responsabilità delle scelte del percorso. Alla fine, tagliando in un canalone che rende la discesa un po’ più alpinistica riusciamo a guadagnare la valle. Davanti a noi l’abbandonata e diroccata frazione di Frattura Vecchia. Una ambiente suggestivo, dove la neve incontaminata contrasta con i ruderi silenziosi del paese. Lo attraversiamo rispettosi di un passato che non vuole morire e che si immortala nel coraggio di pochi che hanno risistemato qualche vecchio edificio. Nella piazza una fontana di montagna tiene compagnia ad un tavolo con tanto di sedili. Sono coperti di neve e un albero, anch’esso coperto di neve nei sui rami spogli, riporta alla serenità del luogo della stagione calda. E’ facile pensare ad un paio di coppie di vecchietti accaniti in una combattuta partita a carte. Ripartiamo rapidi perché ancora molto c’è da percorrere. Una strada che sembra non dover mai terminare ci porta a Frattura Nuova. Il paese è ancora deserto. Solo poche presenze lo animano. Tanti sono i gradini che invece ci permettono di tagliare i tanti tornati del paese. Ogni gradino uno sforzo imprevisto che le nostre articolazioni non vorrebbero davvero più. Solo l’idea che da li a poco tutto sarebbe finito ci da la forza di proseguire. Sono le 17 quando mettiamo in moto l’auto e riprendiamo lenti per le gole del Sagittario. Un viaggio di ritorno silenzioso concentrati sulla gestione delle proprie stanchezze. Dall’autostrada , prima solo dominata dalle torri eoliche, in fondo spunta una vetta bianca rotonda. La riconosciamo ricostruendo il paesaggio. E’ il Rognone. Ora sappiamo dargli un nome anche da quella lingua anonima di asfalto. E le fatiche spariscono lasciando spazio all’emozione di una giornata vissuta faticosamente.